Interposizione fittizia di manodopera 

Interposizione fittizia di manodopera 

Un caso concreto

Premessa

Si erano rivolti al nostro Studio madre e figlio che avevano lavorato per anni alle dipendenze di una multinazionale del settore delle spedizioni, consegna posta e notifica atti giudiziari. Nonostante lavorassero di fatto ed esclusivamente per la multinazionale, non avevano stipulato il contratto di lavoro con quest’ultima, ma con una micro impresa con sede in una Regione del Sud Italia. Quest’ultima aveva fatto soltanto da prestanome, in quanto non era mai comparsa durante il rapporto di lavoro, né aveva mai dato loro indicazioni o direttive lavorative.

Dopo avere inutilmente tentato di trovare una soluzione stragiudiziale, ci siamo rivolti al Tribunale, sezione lavoro, per poter ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro alle dipendenze dirette della multinazionale, evidenziando l’interposizione illecita e fittizia di manodopera. 

Il processo

Il caso si è svolto nelle Marche, dove madre e figlio avevano prestato, per diversi anni, attività lavorativa in favore di una nota azienda del settore delle spedizioni. 

Lo stesso colloquio preassuntivo era stato svolto dall’azienda, che tramite i suoi responsabili aveva esposto ad entrambi i lavoratori le condizioni economiche per l’assunzione, tutti i doveri e le responsabilità del notificatore, le modalità e le direttive su come effettuare le notifiche. 

La madre di fatto gestiva da sola l’ufficio aperto a Macerata, per qualsiasi problema o esigenza doveva contattare la società utilizzatrice e firmare ogni giorno un’autocertificazione che doveva spedire telematicamente. L’ufficio ove lavoravano presentava le insegne della multinazionale, le vetrofanie riportavano a lettere cubitali il nome dell’azienda, tanto che era quest’ultima a fornire sia alla madre che al figlio il materiale pubblicitario da esporre in vetrina, nonché le divise da indossare, che presentavano i classici colori aziendali con annesso il logo. Avevano anche il cartellino di riconoscimento con il logo aziendale. 

Nel corso del rapporto di lavoro i lavoratori erano formati e controllati dal personale della predetta società. La madre si era anche occupata, quale responsabile dell’ufficio, di scegliere eventuali nuovi candidati per le assunzioni sulla provincia di Macerata. Gli stessi nominativi venivano sottoposti all’approvazione della società, che si riservava di vagliarne le credenziali e darne eventuale conferma. Soltanto che, come d’altronde era già successo a loro, i nuovi candidati non venivano assunti direttamente dalla società che utilizzava il loro lavoro ma dalla piccola e sconosciuta impresa prestanome. 

La società prestanome non aveva neanche voce in capitolo per le assunzioni, che venivano prima varate e poi decise dalla multinazionale. Infatti, in seguito all’apertura dell’ufficio di Macerata e alla nomina della ricorrente quale responsabile di tale ufficio, il formale datore di lavoro (la società prestanome) non istruiva né controllava in alcun modo gli addetti all’ufficio. Né gli incaricati della micro impresa avevano mai visitato l’Ufficio di Macerata, né avevano mai dato disposizioni di servizio ai ricorrenti o a altri dipendenti. D’altronde l’ufficio in cui lavoravano veniva sempre identificato, anche nella corrispondenza, come un ufficio appartenente alla multinazionale, tanto che anche dalla visura camerale risultava avere sede una operativa a Macerata. 

La prestanome non compariva, neppure per conoscenza, nelle numerose mail che venivano scambiate dai ricorrenti con la società, il dettaglio delle operazioni effettuate veniva riassunto su carta intestata di quest’ultima, senza mai neppure nominare la prestanome. 

La multinazionale si era difesa in giudizio affermando la correttezza del proprio operato, in particolare giustificandosi di aver stipulato un contratto di subappalto con la prestanome proprio per le attività di notifica e gestione della corrispondenza delle province di Macerata, Fermo ed Ancona.  Si era difesa affermando inoltre che i mezzi produttivi che erano stati messi a disposizione dei lavoratori appartenevano alla piccola azienda. 

Durante il processo di primo grado erano stati sentiti come testimoni i colleghi di lavoro dei ricorrenti, nonché i responsabili della società. I testimoni avevano confermato che i ricorrenti si relazionavano direttamente con i responsabili della società, che utilizzavano esclusivamente il suo logo e le sue divise, che ogni documento e tutte le sedi degli uffici partner riportavano il logo della multinazionale, sia nella vetrofania, sia nelle insegne. 

La sentenza di primo grado aveva dunque accertato la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra i ricorrenti e la multinazionale, condannandola anche al pagamento delle differenze retributive. Tuttavia, la sentenza di primo grado, aveva accertato la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato ma a tempo determinato e non a tempo indeterminato come richiesto. 

La società aveva deciso di impugnare la sentenza di fronte alla Corte d’Appello di Ancona chiedendone l’integrale riforma e i ricorrenti avevano, a loro volta, impugnato la sentenza nella parte in cui aveva riconosciuto la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato invece che indeterminato. 

L’azione incardinata da madre e figlio in primo grado aveva ad oggetto l’interposizione fittizia di manodopera, che si attua ogni qual volta qualcuno che non sia un soggetto autorizzato (e lo sono soltanto le Agenzie di Lavoro) divengono intermediari tra il soggetto prestatore di lavoro e il soggetto utilizzatore di quella prestazione (nel nostro caso la multinazionale). In assenza della succitata autorizzazione, l’attività di somministrazione costituisce illecito penale, con la previsione di sanzioni tanto per il fornitore delle prestazioni lavorative, quanto per l’utilizzatore. 

Nel caso di contratto di appalto, per quanto riguarda l’organizzazione dei mezzi produttivi, tale forma contrattuale si basa sulla presenza e disponibilità, da parte dell’appaltatore, di tutti i mezzi che occorrono per l’esecuzione dei servizi appaltati; differentemente, ciò non è richiesto nel caso di somministrazione, per la quale il lavoratore diviene parte dell’organizzazione dei fattori produttivi delle imprese utilizzatrici. La giurisprudenza, in particolare, ha sottolineato che non può considerarsi sufficiente, a tal fine, “che l’organizzazione dell’appaltatore si estrinsechi nella mera assunzione, retribuzione e la connessa gestione amministrativa del personale”, occorrendo accertare l’esistenza di “un più complesso esercizio dell’attività organizzata di impresa, ovvero di elementi strutturali e procedurali che assumano rilevanza significativa ai fini della realizzazione del servizio dedotto in contratto” (Cass. 30 ottobre 2002, n. 15337, cit.; Cass. 22 agosto 2003, n. 12363, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, p. 48 ss. ). 

Tale organizzazione non si poteva chiaramente ritrovare nel nostro caso, dove la prestanome aveva stipulato con la multinazionale un contratto di appalto, che in realtà aveva come unico oggetto la prestazione di manodopera, formalmente assunta dalla prestanome, ma formata e utilizzata dal colosso. Era evidente che ci trovavamo in presenza di un fittizio contratto di appalto, in quanto la prestanome non aveva alcuna organizzazione dei mezzi, veniva utilizzata solamente per contenere enormemente il costo del personale: le buste paga dei lavoratori variavano da poche decine di euro al mese a poche centinaia.

Altro punto importante su cui basarsi per dirimere i dubbi circa la sussistenza di un appalto di servizi o di somministrazione di manodopera risiede nella localizzazione del potere di direzione del lavoro: se tutta la gestione e l’organizzazione del lavoro è in capo al committente, che minuziosamente disciplina tutti gli aspetti di dettaglio della materiale esecuzione, allora si è in presenza di un rapporto di somministrazione di manodopera. L’aspetto più rilevante è l’esercizio del potere direttivo e di controllo sui lavoratori che era chiaramente in capo alla società utilizzatrice, che interloquiva direttamente con i ricorrenti, inviando ordini di servizio e direttive. 

Ulteriore elemento determinante ai fini della distinzione tra interposizione illecita e appalto di manodopera è l’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio di impresa. La prestanome non assumeva su di sé alcun rischio di impresa utilizzando i locali, il materiale e tutti gli strumenti utili all’esercizio dell’attività forniti dallì’appaltante. 

Alla luce di quanto sopra era evidente che il contratto di appalto tra le due società fosse fittizio, in quanto la prestanome si era limitata a mettere a disposizione le mere prestazioni lavorative del personale assunto soltanto formalmente alle sue dipendenze, personale che è di fatto era dipendente della società appaltante la quale dettava le direttive sul lavoro, esercitando i tipici poteri datoriali. Tale fu anche la conclusione del Tribunale di Macerata, che sulla regolarità e genuinità del subappalto aveva affermato “la società subappaltatrice non risulta avere coordinato una complessa organizzazione dei fattori produttivi, avere assunto il rischio economico derivante dallo svolgimento dell’attività produttiva, non essendo la stessa dotata del necessario ampio margine di autonomia rispetto al committente, in correlazione con la capacità e discrezionalità dell’appaltatore di predisporre e coordinare l’organizzazione dei fattori produttivi idonei al raggiungimento del risultato dedotto nel contratto, nel senso che l’organizzazione materiale dei fattori produttivi da parte dell’appaltatore, nel caso in esame, non risulta sottratta all’ingerenza del committente, che, in questo caso, va ben oltre il diritto di quest’ultimo di verificare e controllare che l’esecuzione dell’opera o del servizio venga svolta a regola d’arte”.

Il Tribunale dunque aveva accertato l’interposizione fittizia di manodopera e condannato la società utilizzatrice alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo, però, determinato. 

Esito della causa 

La Corte d’Appello di Ancona ha respinto l’appello della multinazionale, confermando la sentenza di primo grado quanto alla costituzione di un rapporto di lavoro ed ha anche confermato la condanna alla corresponsione delle differenze retributive maturate. 

Per quanto riguarda l’appello incidentale proposto dai ricorrenti volto a vedersi riconoscere la costituzione di un rapporto subordinato a tempo indeterminato, la Corte d’Appello di Ancona ha motivato “il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 1, stabilisce espressamente che in ipotesi di somministrazione avvenuta al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e) il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione”. 

La Corte d’Appello ha basato la sua decisione sul fatto che se il Legislatore avesse voluto riferirsi alla costituzione di un rapporto diverso da quello a tempo indeterminato non avrebbe certamente avuto ragione di dover far riferimento ad una costituzione del rapporto con effetto dall’inizio della somministrazione stessa, tanto che “… diversamente opinando, verrebbe ad essere facilmente aggirata la disciplina limitativa del contratto a termine: invero, qualora si volesse sostenere che anche il rapporto che si instaura “ex lege” con l’impresa utilizzatrice debba essere a termine, ad onta della accertata illegittimità del ricorso alla tipologia del contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, si perverrebbe alla inaccettabile ed assurda situazione per la quale la violazione così perpetrata consentirebbe all’impresa utilizzatrice di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa …” (così, in motivazione, Cass., sez. Lav. n. 15610 del 15 luglio 2011).

In conclusione, la Corte d’Appello di Ancona ha accolto il solo appello promosso dai ricorrenti, riconoscendo in loro favore un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze della multinazionale.

pubblicato il
28 novembre 2022

di Diomede Pantaleoni