Obbligo di protezione del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ.

Obbligo di protezione del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ.

Il caso dell’infermiera insultata dal primario

Articolo 2087 codice civile

Secondo l’art. 2087 c.c. “L’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La Suprema Corte afferma che è onere del datore di lavoro porre in essere le condizioni necessarie alla tutela del dipendente nei confronti “di sopraffazione o violenze, fisiche o verbali” perpetrate a suo danno (cfr. Cassazione sez. lavoro, n. 4067/2008; Cassazione 8 gennaio 2000 n. 143 e Cass. 17 luglio 1995 n. 7768).

Il caso dell’infermiera insultata dal primario

Una infermiera, per anni insultata e oggetto di atteggiamenti persecutori da parte del primario del reparto, ha ottenuto giustizia dalla Corte di Appello delle Marche che ha condannato l’Azienda Sanitaria a risarcirle i danni morali dopo che il Tribunale aveva negato il risarcimento.

Il primario aveva iniziato ad allontanarla dalla sala operatoria e ad assegnarla soltanto all’ambulatorio. Inoltre il primario si rivolgeva a Lei pubblicamente con frasi denigratorie dicendo che non sapeva lavorare e che non aveva resistenza. Dopo qualche mese il primario aveva passato anche alle frasi volgari ed agli insulti veri e propri. Aveva dunque messo in essere tutta una serie di comportamenti volti a ledere l’immagine e la personalità morale dell’infermiera, ad infastidirla e a metterla in imbarazzo davanti ai colleghi del reparto ed ai pazienti.

Il primario aveva posto in essere nei confronti dell’infermiera, sua sottoposta gerarchicamente, tutta una serie di condotte moralmente riprovevoli aventi il solo scopo di umiliare la dipendente, situazione tra l’altro conosciuta a tutti i colleghi di reparto e alla Dirigenza Ospedaliera.

Giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale

L’infermiera si è rivolta al nostro Studio per chiedere assistenza ed ottenere il risarcimento dei danni. Non voleva coinvolgere personalmente il primario, anche se nel frattempo aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento ad altro reparto, perché ne temeva la reazione.

Abbiamo allora optato per impostare la tutela sotto forma di violazione dell’art. 2087 del codice civile in quanto il datore di lavoro era informato di quello che accadeva nel reparto e non è mai intervenuto a tutelare la dipendente. Inoltre, ai fini dell’onere della prova, spetta al datore di lavoro dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno. E sapevamo per certo che non era intervenuto in alcun modo nonostante segnalazioni scritte. 

L’infermiera ha chiesto dunque che il Tribunale, sezione lavoro, accertasse la responsabilità in capo al datore di lavoro per non aver impedito il reiterarsi continuo e prolungato delle ingiurie nei suoi confronti messe in essere dal primario e condannasse l’azienda sanitaria al pagamento dei danni morali, dato che i fatti costituivano reato.

L’Azienda sanitaria si era difesa affermando che gli episodi descritti in realtà erano stati brevi e pochissimi e che il trasferimento ad altro reparto era stato richiesto dall’infermiera non per evitare il primario ma soltanto per tentare una nuova opportunità di carriera. 

Anche il primario aveva partecipato al giudizio di primo grado (con un intervento volontario non essendo stato citato), limitandosi a negare ogni addebito. 

Durante il processo di primo grado i colleghi erano stati sentiti come testimoni e tutti avevano confermato non soltanto le frasi ingiuriose e umilianti rivolte dal primario all’infermeria, ma che le stesse avevano frequenza quasi giornaliera. Avevano altresì riferito che le offese le erano rivolte davanti ai colleghi ed ai pazienti in modo tale che tutti sentissero; avevano raccontato che l’infermiera era stata allontanata dal primario dalla sala operatoria e che nonostante l’Azienda Sanitaria ne fosse a conoscenza, nessuno si era attivato in suo favore. Anzi l’infermiera giunta allo stremo della sopportazione, ormai viveva in una situazione di profondo disagio, per evitare qualunque contatto lavorativo con il primario, aveva richiesto il trasferimento ad altro reparto. 

La sentenza di primo grado, in maniera a tratti inspiegabile e a tratti contraddittoria, aveva dato atto che il primario si rivolgeva all’infermiera con frasi “sconvenienti ed offensive”, ma aveva affermato che non era stato possibile accertarne l’attendibilità e la frequenza. Su questa scorta aveva escluso che potesse essere risarcito il danno all’infermeria in quanto gli episodi evidenziavano soltanto l’esistenza di conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro, non certamente comportamenti persecutori e pretestuosi. 

L’infermiera, su nostro consiglio, ha deciso di impugnare la sentenza di fronte alla Corte d’Appello di Ancona, ritenendola profondamente ingiusta. 

Giudizio di secondo grado dinanzi la Corte d’Appello di Ancona

Abbiamo detto che secondo l’art. 2087 il datore di lavoro non solo deve astenersi da comportamenti ed azioni potenzialmente negativi, ma gli impone di adottare preventivamente tutte le misure idonee a tutelare sia fisicamente che moralmente il lavoratore dipendente. Nel nostro caso, nonostante le varie segnalazioni fatte dall’infermiera all’Ufficio Ispettivo, alla Caposala e al Responsabile del Nucleo Gestione Professioni sanitarie, nessuno era mai intervenuto. 

La Corte d’Appello ha completamente riesaminato i fatti e li ha trovati non solo provati, ma anche assai gravi.

A giudizio della Corte, non si potevano inquadrare le espressioni ingiuriose ed offensive di cui era stata oggetto l’infermiera nell’ambito della semplice antipatia personale o disistima, contenendo le stesse anche molte espressioni volgari e pretestuose. 

Anzi la Suprema Corte citata sopra (Cassazione sez. lavoro, n. 4067/2008) in un caso simile a quello che stiamo trattando (soggetto sovraordinato gerarchicamente che con i suoi atteggiamenti insultava e ledeva il decoro e la dignità dei suoi sottoposti) aveva addirittura ritenuto validamente intimato il licenziamento comminato per essersi, il superiore gerarchico, rivolto ad alcune dipendenti con espressioni scurrili. Nel nostro caso, invece, il primario non soltanto non era stato rimosso dal suo incarico, ma non era stato destinatario di alcun richiamo per il suo comportamento inqualificabile.

Assumeva altresì rilievo il contesto nel quale il comportamento si esplicava: si trattava infatti non soltanto della sala operatoria, ma come hanno testimoniato i colleghi dell’infermiera, i fatti avvenivano in presenza di colleghi e di pazienti vigili, aggravando ancor più la sensazione di disagio dell’infermiera.

Il primario avrebbe potuto esercitare il suo potere di critica nei confronti dell’infermiera senza sconfinare nell’insulto (Cass. 23 ottobre 1997, n. 195), tra l’altro risponde del reato di ingiuria il superiore gerarchico il quale, sul luogo di lavoro, indirizzi frasi volgari al proprio sottoposto (Cass. 9 ottobre 2007, n. 42069; Cass. 10 agosto 2001, n. 36297).

La Corte di Cassazione ha affermato che l’esercizio del diritto di critica non è incondizionato, perché cessa laddove lede, o è idoneo a ledere, altri beni di rango costituzionale, quali la dignità umana (art. 2 Cost.); anzi la Suprema Corte ha sostenuto che “la posizione di predominanza di un lavoratore rispetto ad un altro non può consentire al primo, pur nell’esercizio delle prerogative a lui assegnate dal datore di lavoro, di utilizzare liberamente espressioni che possono ferire la “dignità e l’amor proprio” del secondo” e ancora “Il diritto fondamentale pregiudicato nei confronti di chi si trova, suo malgrado, a subire le frasi altrui, è quello del decoro e della dignità, che tanto più merita valida tutela nell’ambiente di lavoro” (cfr. Cassazione sez. lavoro, n. 4067/2008).

La Corte d’Appello di Ancona ha accolto la tesi dell’infermiera, riformando la sentenza di primo grado e condannando l’Azienda Sanitaria al risarcimento del danno morale.

In particolare la Corte d’Appello ha accertato che gli insulti erano stati continui, martellanti, sprezzanti ed espressi, per di più, con parole triviali, scurrili e volgari ed utilizzando frasi ed espressioni poco consoni ad un ambiente di sofferenza, quale quello ospedaliero – e, per di più, al cospetto di pazienti – che fossero avvenuti (per lo più) in sala operatoria, non li rende, per ciò solo, meno afflittivi o, addirittura, carenti della loro valenza offensiva, antigiuridica e mortificante. 

La Corte d’Appello ha analizzato le testimonianze, disinteressate ed informate dei fatti per conoscenza diretta e continuativa in ragione dello svolgimento delle comuni mansioni, dei colleghi che avevano in maniera fotografica rappresentato una situazione di continue offese, insulti, sbeffeggiamenti ed ingiurie, essenzialmente gratuite e non giustificate e, dunque, lesive dell’onore e della dignità del soggetto passivo; tanto più che “…la frequenza di questi insulti era quasi giornaliera …”  e, di converso, la sofferenza della persona offesa è durata addirittura per non meno di un biennio; frequenza accentuata in qualche giornata particolare; e ciò – stando alla percezione delle strumentiste – “…dipendeva sostanzialmente dall’umore del chirurgo …”. 

La Corte d’Appello non ha potuto far altro che riformare la valutazione del Tribunale che, pur riconoscendo la sussistenza delle continue ingiurie, le ha ritenute, tuttavia, sostanzialmente prive di connotazione antigiuridica perché maturate nell’ambiente di lavoro particolare della sala operatoria ove il chirurgo necessita di concentrazione particolare; il che tuttavia non giustifica la necessità di costui di insultare, di continuo, e senza una ragione particolare, l’ausiliaria, l’infermiera in posizione di timore reverenziale e soggezione gerarchica. Va da sé che anche l’eventuale errore nell’esecuzione di un ordine superiore ovvero di un ordine di servizio se può giustificare un richiamo verbale non può, tuttavia, giustificare un richiamo verbale accompagnato da insulti gratuiti ed obiettivamente offensivi, stante la tipicità delle sanzioni disciplinari conservative. 

Il primario si era difeso in giudizio limitandosi ad affermare che avrebbe forse tenuto un linguaggio colorito, ma se lo ha fatto è stato per sdrammatizzare la tensione delle sedute operatorie. 

La Corte d’Appello ha quindi accertato che la datrice di lavoro, in violazione dell’obbligazione contrattuale di sicurezza, sancita dall’art. 2087 cod. civ. che integra il contratto individuale di lavoro, non contrastando gli abituali insulti del primario e, dunque, non adottando le misure necessarie ad assicurare la personalità morale della dipendente, aveva omesso di assicurare a costei ambiente di lavoro sereno, libero e scevro di insulti rinvenienti dal superiore gerarchico, sicché l’Azienda sanitaria, a norma dell’art. 2049 cod. civ. deve rispondere del fatto illecito e colpevole posto in essere dal suo dipendente.

Considerata la gravità dei fatti, il loro protrarsi negli anni con cadenza praticamente quotidiana,  la pubblicità degli stessi dato che venivano posti in essere alla presenza dei colleghi di lavoro e dei pazienti, considerati i riflessi negativi sulla vita personale e lavorativa dell’infermiera, l’azienda sanitaria è stata condannata a risarcire all’infermiera il danno non patrimoniale (in particolare il danno morale e il danno alla lesione della dignità della persona), conteggiato su tutta la durata delle offese. 

L’Azienda Sanitaria e il primario non hanno fatto ricorso in Cassazione e la sentenza d’appello è divenuta definitiva.