Assegnazione a mansioni inferiori. Demansionamento.

Assegnazione a mansioni inferiori. Demansionamento.

L'art. 3 del decreti legislativo n. 81/2015 ha riconosciuto la legittimità di alcune ipotesi di assegnazione a mansioni corrispondenti al livello di inquadramento inferiore.

Premessa

L’art. 2103 c.c. prevedeva il divieto di adibizione a mansioni inferiori, con nullità di ogni patto contrario. L’art. 3 del decreti legislativo n. 81/2015 ha riconosciuto la legittimità di alcune ipotesi di assegnazione a mansioni corrispondenti al livello di inquadramento inferiore. In particolare se dovute:

  • alla modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore;
  • alle previsioni della contrattazione collettiva

Ha introdotto poi ipotesi specifiche in cui la modifica delle mansioni può essere effettuata mediante accordo individuale in sede sindacale o dinanzi l’Ispettorato del lavoro (art. 2113 c.c)  o presso le commissioni di certificazione di cui all’art. 7 e ss. del decreto legislativo n. 276/2003.

Nei casi di illegittima assegnazione di mansioni inferiori il lavoratore può agire in giudizio per sentir dichiarare la nullità del patto contrario con conseguente diritto di essere riassegnato alle mansioni svolte in precedenza ovvero a quelle corrispondenti al livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Lo svolgimento di mansioni inferiori

  • Il demansionamento dà diritto al risarcimento del danno calcolato in via equitativa
  • Il patto demansionamento è nullo salvo in particolari ipotesi per la conservazione del posto di lavoro, per l’acquisizione di una diversa professionalità o per il miglioramento delle condizioni di vita
  • Il demansionamento è ammissibile se costituisce l’unica alternativa al licenziamento o per svolgimento temporaneo di mansioni inferiori non prevalenti, nelle seguenti ipotesi:
    • trasferimento del lavoratore ad altro settore per la soppressione del precedente servizio di appartenenza;
    • esternalizzazione di servizi o loro riduzione a seguito di riconversione o ristrutturazione aziendale;
    • lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, con il suo consenso;
    • assegnazione occasionale a mansioni inferiori, marginali rispetto a quelle espletate ma connesse, per specifiche esigenze dell’impresa;
    • assegnazione temporanea di mansioni inferiori se non intaccano lo svolgimento prevalente delle mansioni corrispondenti all’inquadramento del lavoratore;
    • espressa previsione di legge: accordi sindacali stipulati nell’ambito delle procedure di esubero che prevedono il riassorbimento totale o parziale di lavoratori ritenuti eccedenti; modifica degli assetti organizzativi aziendali;
    • Se previsto dalla contrattazione collettiva

La legge prevede, al di fuori delle previsioni contenute oggi nell’art. 2103 c.c. e in alcuni specifici casi l’eventualità della modifica delle mansioni ovvero un divieto di modifica. Si tratta delle seguenti ipotesi riconducibili a finalità organizzative o di tutela della posizione del lavoratore.

  •  le disposizioni del Testo Unico sulla maternità a tutela della salute della lavoratrice gestante e madre ovvero finalizzate a garantire il rientro al lavoro;
  • le disposizioni del Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro in relazione ai compiti di sorveglianza sanitaria assegnati al medico competente;
  • le disposizioni regolanti il lavoro sportivo;
  • i casi di riduzione della capacità lavorativa del lavoratore portatore di handicap;
  • le disposizioni in materia di lavoro notturno;
  • le disposizioni che consentono di sottoscrivere specifiche intese finalizzate alla regolazione a livello aziendale di specifici istituti giuridici tra cui le mansioni, la classificazione e l’inquadramento del personale (c.d. accordi di prossimità);
  • La norma relativa all’introduzione di un obbligo vaccinale nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario

Per configurare il demansionamento non è sufficiente, comunque, una mera riduzione quantitativa delle mansioni, in quanto occorre fare riferimento all’incidenza di tale riduzione sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale e, con specifico riguardo alla figura del dirigente, alla rilevanza del ruolo ricoperto da

Viola il disposto dell’art. 2103 cod. civ. il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di inattività il lavoratore, ancorché in mancanza di conseguenze sulla retribuzione o di uno specifico intento persecutorio (Cass. 2 novembre 2021, n. 31182).

Fungibilità delle mansioni

Il principio di tutela della professionalità acquisita resta impregiudicato in caso di accorpamento cdelle mansioni, posto che la disciplina dell’art. 2103 c.c. preclude una indiscriminata fungibilità delle mansioni per il solo fatto di tale accorpamento.

Anche nel caso di riclassamento (ad esempio, in caso di riclassificazione delle qualifiche per effetto di fusioni societarie) occorre verificare che non venga attuata un’indiscriminata fungibilità di compiti Il demansionamento non può ritenersi escluso nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite.

Tutela legale per il lavoratore

In caso di demansionamento è possibile attivarsi in giudizio in via d’urgenza, nel caso in cui dallo svuotamento delle mansioni derivi un pregiudizio alla professionalità che sia suscettibile di divenire irreversibile con il decorso del tempo per obsolescenza delle competenze lavorative. Per ottenere il risarcimento del danno dovrà essere comunque attivato un ricorso ordinario.

Il danno è quantificato in via equitativa in misura percentuale tra il10% al 100% della retribuzione percepita nel periodo di adibizione a mansioni inferiori, a seconda della gravità del demansionamento. Può essere riconosciuto anche il danno morale in presenza di dequalificazioni mortificanti.

Il lavoratore demansionato può rifiutarsi di svolgere mansioni dequalificanti, ai sensi dell’art. 1460 c.c., purché il rifiuto sia conforme a buona fede e, quindi, proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro.